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mercoledì 19 marzo 2014

L'insostenibile pesantezza del gergo enogastronomico.



Se vi capitasse di ascoltare una discussione riguardante una mano di poker, intessuta da due giocatori esperti di texas hold'em, capireste sì e no tre o quattro parole. Sareste travolti da un gergo pieno di parole inglesi storpiate, maccheroniche, affastellate apparentemente alla rinfusa ma dal ritmo incalzante. Il gergo è elitario. Enfatizza le competenze, definendo ed elevando lo status di un gruppo sociale.In parole povere è un' aggiunta scenografica che da sostanza all'immaginario collettivo. Prendiamo il settore della ristorazione di lusso. Un microcosmo che , a mio parere, si regge molto su una specifica ritualità. Un cerimoniale ben studiato, fatto di gesti, parole ricercate, accortezze esagerate e talvolta grottesche. Non scorderò mai, durante una crociera, il cameriere che, dopo aver atteso che mi mettessi a sedere, mi spinse delicatamente la sedia in avanti, per accostarmi meglio al tavolo. Forse ho un animo troppo rude, ma per me quella scena fu quanto di più comico potessi mai sperimentare. Non parliamo poi del linguaggio dei menù. In un ristorante stellato che si rispetti, ogni singolo piatto deve occupare almeno tre righe e comprendere tassativamente termini come: "misticanza", "mousse","gratin", "tartare"e spesso finire su un "letto" di qualcosa. Deve generare aspettativa creando il giusto mistero. Che poi sapete no, che le pietanze non si servono più ? Forse la frittatina di cipolle che uno fa in fretta e furia prima di tornare al lavoro, si serve ancora. Ma il resto no. Il resto s'impiatta. Guai a non impiattare. I bucatini all'amatriciana, per esempio, si potrebbero offendere ed attorcigliarsi tutti in nodi marinari. E mi sembra di vederlo il vostro uovo all'occhio di bue che vi guarda storto e deluso, lui e il bue. Ma forse è nel mondo dell'enologia, che il gergo si afferma e si consolida come essenza stessa e strumento di lavoro. Ritorniamo per un attimo alla ritualità. Siete seduti al ristorante e dopo aver scelto una bottiglia di vino, vi si avvicina un signore distinto. Vi mostra la vostra bottiglia, etichetta in vista, come se in mano avesse uno scrigno pieno di diamanti. Dopodichè potete anche farvi un sonnellino, perchè prima che arrivi al punto di stapparlo, passeranno come minimo cinque minuti. Vi desterà dal vostro torpore la fatidica domanda: " Chi assaggia ?" E lì cominciano i problemi. Sguardi imbarazzati, finchè un temerario non si decide a fingersi un esperto. Ci si sente straniti come se un gruppo di studenti si sentisse chiedere dal proprio professore: "Allora, chi m'interroga ??" Personalmente, le rare volte in cui mi sono trovato a rivestire i panni del provetto assaggiatore, ho soffocato a stento la necessità di lasciarmi andare ad una liberatoria risata. Per carità, non ho niente contro i sommelier e la loro professionalità, ma dovrebbero essere un tantino più flessibili e adattarsi agli avventori di turno, che nella stragrande maggioranza dei casi vogliono solo del vino rosso o bianco, mosso o fermo. Punto. Stop.
E invece, che ve lo dico a fare ! E' tutto un tripudio di note fruttate e non, di amarena, prugna, di cioccolato e carruba. Caratteristiche quali coesione, scorrevolezza, luminosità la fanno da padrone. Per non parlare dei "ventagli olfattivi giocati su riconoscimenti floreali", oppure della "chiusura sapido-minerale unita a coerente retrolfazione, che regala ulteriore continuità all'ottima piacevolezza degustativa". Ora, con tutto il rispetto, voi capite che tra una degustazione ed una "supercazzola"il confine mi sembra labile. Eppoi mi sono chiesto, come fa un vino ad essere "coerente" ? Per caso l'uva da cui proviene è feticista, ed esige di essere pigiata solo da piedi nudi affusolati e con le dita etrusche ? Il cuore di tutta la faccenda, secondo me, è che un vino, per quanto lo si voglia finemente analizzare, resta un vino. Per cui gli addetti ai lavori, dei quali non discuto la bravura, finiscono talvolta per perdere di vista la materia prima. Schede di degustazione che assomigliano a brillanti esercizi di scrittura e che lasciano paradossalmente un vuoto, che la logorroica sfilata di fantasiosi aggettivi, non riesce a colmare. Parlare, (e scrivere), come si mangia, potrebbe rivelarsi un consiglio non così grezzo e banale come si è  portati a credere.
Una cosa è certa, per quanto mi riguarda. Se siete convinti della coerenza del vino, evitate d'invitarmi a cena. Coerentemente sarò lieto di rivolgermi al kebabbaro sotto casa. Niente di personale.

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